sabato 27 marzo 2010

"Alice in Wonderland" (id.)

Ci sono momenti in cui mi diverto ad immaginare il funzionamento della geniale mente di Tim Burton, ad immaginare quali siano i meccanismi che la governano e le immagini che la affollano: ad un visitatore che vi piombasse dentro sono quasi certo essa apparirebbe come la materializzazione della tana del Bianconiglio, in cui si troverebbe a precipitare vorticosamente mentre oggetti di ogni fatta e provenienza gli sfrecciano accanto e nel suo turbinare lo accompagnano volti e personaggi ormai familiari, il Pinguino a braccetto con Edward Mani di Forbice, la testa di zucca di Jack Skellington ad inseguire il volto sorridente della Sposa Fantasma o Beetlejuice a sbeffeggiare Willy Wonka ed i suoi Humpa Lumpa. Ma alla fine della lunga discesa troverebbe un solo personaggio ad attenderlo, l'Alice intenta a chiedersi come passare attraverso quella minuscola porticina ed incarnazione più pura dello spirito del regista di "Big Fish": non Peter Pan, rinchiuso nella propria adolescenza, ma questa ragazzina inglese che cresce lasciando fiorire giorno dopo giorno il seme piantato dal Paese delle Meraviglie. Questa è la ragione per cui è divenuto forse il migliore raccontatore di favole che il cinema abbia avuto, per la capacità di sfilare le storie dalla loro natura idealizzata e bidimensionale tingendole con nervature di nero umorismo che le allaccia alla realtà senza togliere nulla alla loro capacità di essere magiche e poetiche. Così in "Alice in Wonderland" la protagonista è ormai cresciuta, perdendo il ricordo (o meglio credendolo sogno...) del primo viaggio nel Paese delle Meraviglie, che ora ritrova decadente ed oscurato dalla tirannia della Regina di Cuori (una spettacolare, crudelissima e mapocciona Helena Bonham Carter), anche se ancora popolato da tutti i suoi vecchi amici, ricreati in modo grandioso: i gemelli Panco Pinco e Pinco Panco (spassosi, surreali, indimenticabili), l'evanescente e gigione Stregatto (unico vero bonus della visione tridimensionale), l'ascetico ed oracolesco Brucaliffo o la perfettinamente insopportabile Regina Bianca (azzeccatissima Anne Hathaway). Lascio volutamente per ultimo il Cappellaio Matto interpretato da Johnny Depp, all'ennesima stupenda trasformazione e sempre più bravo: folle, stralunato, bizzarro senza perdere una stilla del suo fascino, 'la musa' del regista ne è strumento perfetto per guidare Alice (e noi) nel Paese delle Meraviglie, perchè incapace di liberarsi dalla sua dimensione di fantasia ma in grado di insegnare come tale meraviglia possa volare fino alla realtà ed essere usata per superarne gli ostacoli.

Voto: 8/9

Una delle più riuscite favole targate Tim Burton, appena un po' penalizzata dal finale non troppo originale, geniale nel rivisitare le tradizioni di disneyana memoria con pennellate dark o kitsch che rendono il risultato finale assolutamente unico e molto più 'profondo' di quanto si potrebbe credere.

sabato 20 marzo 2010

"Invictus" (id.)

"Dal profondo della notte che mi avvolge, buia come il pozzo che va' da un polo all'altro, ringrazio tutti gli dei per la mia anima indomabile".
Questi sono i versi che aprono la poesia di W.E. Henley in cui è racchiusa la chiave di volta del nuovo film di Clint Eastwood , storia di un uomo che mantenne il cuore 'invictus' nonostante gli sferzanti colpi della sorte, che con il suo esempio spinse una nazione intera a rialzare la testa e due popoli in guerra tra loro a scoprirsi come le due diverse facce della stessa medaglia.
Per la terza volta (dopo i gemelli "Flags of Our Fathers" e "Letters from Iwo Jima") il maestro americano torna a misurarsi con la Storia, che questa volta ci fa osservare usando come una lente la figura di Nelson Mandela (interpretato in modo indescrivibile da Morgan Freeman, che ne ruba sembianze, movenze, carisma...), adottando il punto di vista dell'individuo che è riuscito ad elevarsi al di sopra di essa sino a riscriverne le pagine e a farne riscrivere le pagine a uomini e donne che mai avrebbero immaginato di poterlo fare, proprio come accadde ai membri della nazionale sudafricana che contro ogni aspettativa trionfò ai Mondiali di rugby del 1995.
Perchè questa è anche una storia di sport (per l'ennesima volta la più semplice e concreta metafora della vita) e di come venne usato là dove la coltre di diffidenza ed odio sembrava insuperabile: è quasi un logico segno del destino che questo sia stato possibile grazie al rugby, disciplina 'poesia del sacrificio' ed emblema quasi insuperabile di coesione e di volontà indomabile.
La principale sfida che il regista di "Potere Assoluto" ha dovuto affrontare è stata quella di far traspirare dal grande schermo le sensazioni proprie del rugby senza spogliarlo di ogni parvenza di realismo, sfida inevitabile per chi decide di narrare storie di uomini e di sport: il risultato finale è veramente buono, probabilmente soddisfacente anche per i puristi, soprattutto grazie alla scelta di concentrare poco l'attenzione della telecamera sull'ovale e di utilizzarla invece per esaltare al massimo la fisicità fatta di dinamismo ed impatti, di fatica insostenibile e risolutezza a non cedere mai.
Questa sfida vinta però accompagnata da un inesplicabile senso di incompletezza, quasi di insoddisfazione, che sorge nello spettatore. Il percorso che ci ha condotto sin qui è passato attraverso "Million Dollar Baby", "Changeling", "Gran Torino" ed avvertiamo che le sensazioni provate non sono le stesse, che le emozioni suscitate vibrano solo in superficie e non ci scuotono nel profondo. Sembra quasi che sia smarrita la tensione drammatica nella narrazione (fa capolino a tratti solo nella sequenza del carcere), forse perchè la volontà dei personaggi di lasciarsi il passato alle spalle viene tradotta sin troppo concretamente nel film (quasi nulli i flasback o i richiami ad esso...) e le loro azioni risultano così impoverite di significato. E questo contribuisce a far sì che lo spettatore si senta un po' più distante da una vicenda che già di suo è talmente vera ed incredibile da risultare falsa ed eccesivamente retorica.
Può capitare qualche volta che la storia che ci viene raccontata non ci colpisca molto favorevolmente, ma questo non significa non apprezzare od ammirare l'opera del narratore. Soprattutto se, come nel caso di Eastwood, sia il miglior narratore che potreste desiderare.

Voto: 8
Il solito, immenso Clint Eastwood alle prese con un film sulla Storia, sull'uomo e di come abbiano deciso di incontrarsi su un campo da rugby: per una volta "solo" cinematograficamente perfetto e un po' meno emozionante delle ultime meravigliose opere.

lunedì 15 marzo 2010

"Avatar" ("Avatar - 3D")

Nel corso della carriera di critico ci si trova a doversi tuffare in un variegata moltitudine di film, dal piccolo capolavoro rimasto quasi sconosciuto al blockbuster miseramente fallito su scala mondiale.
La scelta di andare a vedere Avatar a più di due mesi dall'uscita mondiale ha comportato l'affrontare una pellicola che ha piazzato entrambi i piedi nella storia del cinema, dato oggettivo ed inequivocabile che avrebbe potutto pesare come un macigno sulla visione (sia positivamente che negativamente) e che invece è semplicemente svanito non appena si sono spente le luci in sala, insieme a tutto il bailamme di chiacchere ed anticipazioni smosse ad arte dalla invasiva campagna di marketing.
Inutile negare che l'impatto sia assolutamente sbalorditivo, ma la cosa più sorprendente è come tutta la magnificenza tecnica e scenica (finalmente si può parlare di tridimensionalità nel senso compiuto del termine) non sia gettata addosso allo spettatore, ma venga usata per attrarlo poco a poco nell'alieno mondo di Pandora: come il protagonista, ci troviamo ad entrare in un mondo sconosciuto e meraviglioso muovendo intorno lo sguardo come bimbi pieni di curiosità e stupore, lasciando un po' per volta alle nostre spalle il mondo da cui veniamo e rendendo sempre più difficile anche per noi il distacco del soldato Sully dall'avatar ed il ritorno alla realtà. Questo crescendo è costante ed inesorabile, diretto dalla mano sicura e capace di un regista come James Cameron, la cui bravura non è mai stata nè sarà mai decretata dai premi vinti: capace di spaziare tra vari generi cinematografici sempre con risultati di assoluto valore (da Terminator I & II a True Lies, da Aliens a Titanic..), è divenuto con il tempo forse il più grande esempio di come la tecnica possa essere asservita al fluire del film, esaltandolo invece che mortificandolo. Certo, in Avatar gli và riconosciuto il vantaggio di aver potuto lavorare ad un mondo creato senza vincoli ed imposizioni, ma è chiara la sensazione che un altro regista non sarebbe riuscito a dare forma così perfetta all'immaginazione degli sceneggiatori.
I più curiosi di voi si staranno però chiedendo perchè, se è tutto così incredibile, avvincente e persino emozionante, abbia riservato a questo film un voto che lo separa di un passo dall'eccellenza.
Il motivo và semplicemente cercato in quei molti, moltissimi momenti di cui Avatar è debitore nei confronti di ''Balla coi lupi'', i momenti in cui i passi di Jack Sully (un Sam Worthington pronto a spiccare il volo verso la celebrità, per ora perfetto physique du role) sembrano sovrapporsi a quelle del soldato John Dumbar.
E' sicuramente oggetto di discussione se l'originalità consista più nel mostrare cose nuove oppure nel mostrare in modo nuove cose già note, ma rimane il fatto che questo film sia un ramo, per quanto meraviglioso, innestato su una pianta che altre mani hanno collocato nel terreno.
Non è ovviamente un difetto capitale, però è quel tanto che secondo me giustifica il volerlo mettere appena un gradino sotto il capolavoro che lo ha preceduto, senza togliere nulla al fantastico viaggio nel mondo dei Na'vi.


Voto: 8,5
Anche senza la carica rivoluzionaria di "Matrix", un film che alza l'asticella della spettacolarità sul grande schermo, ispirandosi alla storia degli indiani d'America per condurci in un viaggio stupefacente ed avvincente sulla superficie del pianeta Pandora.