martedì 12 ottobre 2010

"Inception" (id.)

Gli occhi chiusi..la penna mollemente adagiata fra le dita..nei miei panni da recensore mi preparo ad affrontare un'impresa che ha i lineamenti dell'impossibile, quasi si trattasse di risvegliarsi improvvisamente e catturare su di un foglio un sogno e le sue sfumature, raccontarlo senza tacerne alcun paradosso o stupefacente invenzione. Un sogno senza apparente soluzione di continuità è infatti l'ultima creazione di Christopher Nolan, il suo (sperando mi si perdoni l'ardire...) capolavoro.
Tratto distintivo delle sue opere è sempre stata questa sorta di insaziabile passione per l'intreccio complesso (di cui gli occhi dello spettatore riescono a svolgere il bandolo solo un po' alla volta), per il gioco guidato dall'unica regola che ciò che si vede spesso non coincide con la realtà; da "Memento" fino a "The Dark Knight", passando per "Insomnia" e "The Prestige", è stato possibile accorgersi di questo germoglio, che ora è compiutamente fiorito in "Inception". Agendo con tempi scenici giunti ad un passo dalla perfezione la mano del regista costruisce per la nostra mente un labirinto a dir poco magistrale: complesso quanto basta per pungolare senza sosta la nostra intelligenza e la nostra curiosità, ma non al punto da lasciarci smarriti fra le pieghe della trama.
La sceneggiatura è stata tessuta dai fratelli Nolan per dieci lunghi anni, ma il risultato di questo incessante lavoro di composizione e cesellatura è davanti ai nostri occhi sin dalla prima sequenza: la storia è densa e complessa, avvincente ed originale, ingannevolmente travestita da pellicola d'azione ed invece esplorazione fra le nebbie dei meccanismi con cui opera la mente umana. Senza dimenticare che il tutto funziona ad orologeria: le variazioni di ritmo sono impeccabili e i diversi piani del racconto sono concatenati con lo stesso meccanismo sorprendentemente semplice ed inesorabile per cui la caduta di una tessera del domino può provocare quella di altre centinaia.
E all'altezza della corsa mozzafiato si dimostra anche il traguardo finale (riguardo al quale sono debitore verso mio fratello della similitudine con il finale di Blade Runner ed il suo potere allusivo e chiarificatore) che, pur chiudendo perfettamente il circolo delle vicende, non "sigilla" completamente la storia, ma ci lascia ancora il pungolo per rielaborarla e scovarne i segreti.
Così, alla testa di un cast brillante ed affiatato, Leonardo Di Caprio (all'ennesima scommessa vinta della sua luminosa carriera) si trova a guidarci all'interno del primo vero erede/rivale di Matrix, con cui compete testa a testa in tutti gli aspetti e a cui cede forse una spanna di vantaggio in quei momenti in cui la complessità corre il rischio di tramutarsi in complicazione.

Voto: 9+
Degno erede di "Blade Runner" e "Matrix", la nuova pietra miliare del cinema di Fantascienza (la F è volutamente maiuscola) si rivela un meraviglioso rompicapo, magistralmente architettato per non concederci un attimo di respiro e per intrappolare la nostra mente in un mondo immaginario da cui fuggire non sarà semplice come far ruotare una trottola...

lunedì 11 ottobre 2010

"Bright Star" (id.)

Come novelli don Chisciotte sfidati dai mulini a vento, ci troveremmo destinati ad inseguire un'illusione se cercassimo di individuare e classificare le ragioni per cui l'arte ci riesce ad emozionare, di tendere un filo di oggettività che ci consenta di prevedere le nostre reazioni di fronte ad essa. Esempi perfetti sono la pittura ed il cinema stesso, ma è impossibile dimenticare la poesia, alla base dell'ultima fatica di Jane Champion. La regista neozelandese (su proprio soggetto) decide di raccontare un frammento della breve e tormentata esistenza di John Keats, alfiere dell'ottocentesco romanticismo inglese, e del bruciante rapporto con la sua 'musa' Fanny Brawne.
Per farlo impugna la macchina da presa con delicatezza e quasi con pudore, 'spegne' la tonalità di molti colori ed accompagna il tutto con una colonna sonora lieve ed intessuta di archi. Questa sorta di sguardo 'neutro' con cui decide di farci osservare le vicende è un'impronta stilistica che per sua natura vive nel rischio di trasformare il tutto in un semplice documentario, ma in questo caso non fa altro che lasciare agli elementi della narrazione la libertà di emergere spontaneamente, rispettandone e preservandone le peculiarità.
Così, nel tessuto della vita nella campagna inglese di metà Ottocento, risplendono i fili delle poesie e degli sguardi dei due incantevoli protagonisti.
Il Keats di Ben Whishaw è tormentato, solitario ed affascinante, tanto fragile da sembrare in ogni istante sul punto di spezzarsi sotto il peso delle circostanze quanto in grado di trasmettere forza palpitante e travolgente nelle parole vergate su piccoli e sparsi frammenti di carta; incapace di sentirsi parte di un mondo alle cui emozioni riesce a dar voce meglio di chiunque altro.
Ma il vero splendore del film è tutto racchiuso nel volto e nelle movenze di Abby Cornish, tanto più stupefacente in quanto lontana da ogni forma di artificiosità. Così, illuminata dal germe di anticonformismo e ribellione che le alberga nel cuore, si muove con grazia tra le pieghe della storia, incuriosendo ed affascinando lo spettatore che, come il protagonista maschile, si trova a poco a poco avvinto dalla spirale che conduce verso l'amore bruciante e totalizzante.
Dal punto di vista cinematografico il lavoro della Champion è superbo proprio perchè riesce ad immergerci in queste vicende senza interporre filtri, ma proprio questo sarà per molti un elemento penalizzante:il film è permeato dello spirito dell'epoca e dei protagonisti e finisce con l'assumerne totalmente la forma, quindi non me la sento di condannare chi cadrà presto preda della noia a causa di una vicenda estranea e lontana dal proprio modo di sentire e pensare.
D'altronde, come si diceva all'inizio, beato colui che riuscirà a trovare il fulcro su cui agisce l'arte per emozionarci...

Voto: 8 1/2
La più recente opera in costume di Jane Champion regala momenti di autentica e vibrante poesia, anche se la veste scelta per la rappresentazione correrà forse il rischio di essere d'ostacolo all'empatia di chi non nutre un'intensa passione per il mondo descritto dalla regista neozelandese.