mercoledì 11 maggio 2011

"Thor" (id.)

Poco importa se la sua esistenza sia stata reale o solo il frutto della fantasia antica: agli occhi dell'era moderna Omero rappresenta, se non il padre, certamente il più grande cantore della mitologia greca.
La storia, che si diverte a sorprenderci con i propri corsi e ricorsi, ha regalato al Ventesimo Secolo quello che è, fatti i dovuti distinguo, la sua incarnazione moderna: Stan Lee. La sua penna ha contribuito ad edificare una vera e propria epica moderna, popolata di eroi e di dei, tra cui un ruolo di prima fila spetta senza dubbio a Thor, colui che
secondo la mitologia nordica è figlio del signore degli dei, Odino.
Per chi scrive, questa figura ha sempre avuto le potenzialità maggiori nell'universo Marvel, per spessore e varietà della gamma narrativa esplorabile: da un lato la possibilità di attingere alla sorgente inesauribile dei miti del Nord (con i loro stilemi 'fantastici' e quei temi - brama di potere, amore e superbia, inganno e lealtà,... - che si ritroveranno quasi immutati nella successiva storia della tragedia), dall'altro la libertà di muoversi nel mondo contemporaneo seguendo le più multiformi possibilità 'supereroistiche'.
La presenza di Kenneth Branagh come regista sembra proprio costituire una limpida dichiarazione d'intenti a riguardo: a pietra angolare del film saranno designati i tòpos tragici resi immortali da Shakespeare (tanto cari al regista inglese...) e dunque l'impianto mitologico prevarrà sulla narrazione contemporanea. La conferma di ciò si ha osservando come le vicende ambientate sulla Terra abbiano sempre come proprio sfondo gli eventi di Asgard (e non viceversa) ed il compito che esse si trovano ad assolvere sia principalmente quello di integrare il cammino che il protagonista sta conducendo nel mondo degli dei scandinavi.
Alle prese con una mole di 'necessari' effetti speciali davvero inusuale per lui, il regista dell' "Enrico V" ne fa un utilizzo piuttosto convenzionale e quasi svogliato per le scene d'azione, concentrandosi invece quasi totalmente sulla messa in scena imponente, grandiosamente teatrale, evidenziando con ogni inquadratura la sproporzione tra gli scenari e le creature che in essi si muovono (siano esse divinità o esseri mortali).
Il risultato finale è all'altezza delle aspettative per ritmo e respiro epico, anche per merito dell'ennesima opera di casting ben riuscita (convincente prova d'attore per tutto il cast, anche se Chris Hemsworth è talmente perfetto per la parte da rendere inutile interrogarsi sulle sue eventuali capacità attoriali...).
A far da contraltare a questa impressione positiva, ogni tanto emerge come maggior difetto della pellicola qualcosa che è, paradossalmente, legato a doppio filo proprio con la sua ragion d'essere: la grande fedeltà al fumetto originale. Costretti (con bravura!) a seguire i paletti narrativi, la storia ed i personaggi finiscono qualche volta con il suscitare la sensazione di essere ammantati da una patina 'marvelliana' (nel senso negativo del termine), cioè con il risultare vagamente 'insipidi', raccontati da uno sguardo che non scende al di sotto della superficie delle cose.

Voto: 7 1/2
Bell'adattamento di un maestoso classico delle nuvole parlanti in cui eroi moderni e miti antichi vanno a braccetto, Thor lascia il rimpianto di essere stato plasmato senza usare fino in fondo le capacità drammatiche di Kenneth Branagh, più frequentemente assorbite dalla creazione di un suggestivo impianto scenico, invece che strumento per dare ai personaggi e alla storia la profondità che meriterebbero.

venerdì 1 aprile 2011

"The Fighter" (id.)

"La boxe è qualcosa di innaturale, perchè si fa sempre tutto al contrario. (...) Invece di allontanarti dal dolore, come farebbe qualunque persona sana, gli vai incontro."
Quello che tace il Morgan Freeman di "Million Dollar Baby" è che spesso a spingere in avanti il pugile è proprio il dolore (interiore) che invece egli vuole lasciarsi alle spalle. Probabilmente è per questo motivo che le migliori storie di boxe sono quelle che hanno saputo raccontare meglio questo dolore, sino a farlo trasudare dalle immagini.
Al novero di queste migliori storie appartiene senza dubbio l'ultima fatica del 'desaparecido' David O. Russell, messa in scena del frammento più significativo della vita e della carriera di "Irish" Micky Ward, indissolubilmente e drammaticamente legate ai microcosmi della sua famiglia (nel senso tribale ed assolutizzante che solo irlandesi ed italiani sanno dare a questa parola...) e della piccola cittadina di Lowell, Massachussets.
Impugnando la macchina da presa, il regista di "Three Kings" decide di condurre la narrazione dando il medesimo peso ai tre mondi in gioco (pugile, famiglia, luogo) ed ottiene così un'opera molto più sfaccettata, ricca ed equilibrata di quelle invece maggiormente concentrate sul protagonista: esemplari in questo senso sono i diversi combattimenti, in cui il contesto esterno ha un valore pari, se non superiore, a quello di ciò che avviene tra le corde del ring.
Ad aiutarlo in questa scelta contribuisce notevolmente la sceneggiatura "da strada" stesa dal team guidato da Scott Silver, la penna celata dietro "8 Mile". Questo fatto non è puramente casuale e chiarisce limpidamente quale sia la chiave di volta intorno cui è costruita la vita cinematografica dei vari personaggi: l'ambiente che li circonda entra loro sottopelle, rimane loro addosso come un marchio incancellabile. Ogni istante ed ogni azione sono schiacciati da una mediocrità che non può essere lavata via, da un futuro già scritto cui sembra impossibile sottrarsi.
In questa pellicola tale coacervo di amarezza e sofferenza trova l'incarnazione perfetta in un gruppo di attori da applausi, partendo dai comprimari sino a giungere a quelli principali: se Amy Adams dimostra di possedere talento ed una bellezza multidimensionale, a strabiliare sono l'irriconoscibile Melissa Leo, che regala una matrona strabordante ed eccessiva (una sorta di Erinni dalla chioma cotonata 'Eighties Style' e dalla sigaretta sempre innescata...), e l'indescrivibile Christian Bale, capace di dare vita ad un tossicomane da antologia, con occhi, scarni lineamenti e movenze deformati e divorati dalla droga e dall'istinto autodistruttivo.
Mi si permetta un commento finale anche su Mark Wahlberg.
A mia memoria in nessuno dei suoi film è stato il migliore attore e di certo non ci troviamo di fronte ad un fuoriclasse della recitazione; è però impossibile negare come sia spessissimo l'uomo giusto al posto giusto nel film giusto (vi dicono qualcosa autentici cult sommersi come "Boogie Nights", "Shooter", "Four Brothers", "I padroni della notte",..?), grazie ad un stile comunque decoroso e ad una carisma fisico assolutamente di primo livello.

Voto: 8 1/2
Grande film sulla boxe in cui i combattimenti più feroci ed il dolore più lancinante appartengono alla vita fuori dal ring, ritratto a tinte intense di una America di provincia soffocata dall'inedia e dalla mediocrità (per amor di confronto vi consiglio "The Town" di e con Ben Affleck), "The Fighter" riesce nel compito gravoso di rendere onore ad una storia vera senza trasformarla nell'ennesima edificante favoletta a stelle e strisce.

mercoledì 23 marzo 2011

"Unknown" ("Unknown - Senza identità")



TheScreenSurfer 7/8_In una bella e fredda Berlino non da cartolina un thriller decisamente ben girato, dal canovaccio non inedito, ma avvincente fino alla fine. Cast molto azzeccato.

"Burke & Hare" ("Burke & Hare - Ladri di cadaveri")

Chissà cosa sarebbe successo nel fantasioso caso in cui Leonardo da Vinci, dopo una deriva artistica più che ventennale seguita ai suoi capolavori (e popolata solo di opere sempre più trascurabili...), avesse deciso di rimettere mano ai pennelli per ritrarre nuovamente una nobildonna fiorentina... Molto probabilmente la reazione dei contemporanei sarebbe stata un misto di diffidenza e curiosità, la prima frutto del deludente esilio creativo e la seconda generata dalla grande ammirazione per le opere passate.
Nei medesimi panni mi sono ritrovato una volta posto di fronte all'ultima creazione di John Landis, regista di magistrali film come "Tutto in una notte" ed "Una poltrona per due", alle prese con il suo primo vero 'buddy movie' dopo "The Blues Brothers" (semplicemente, uno dei dieci migliori film di sempre...).
Com'è ovvio che sia, il primo e fondamentale passo in questo genere cinematografico consiste nella scelta della coppia protagonista, che in "Burke & Hare" è decisamente indovinata.
Il mascalzone idealista e dall'animo buono ha le fattezze di Simon Pegg, ormai familiari anche agli spettatori meno cinefili. Ancora una volta l'attore inglese si dimostra un vero e proprio fuoriclasse della risata a tutto tondo, con il suo personalissimo mix di ironia e comicità involontaria da uomo qualunque che gli permettono di trovarsi a suo agio svariando dalla commedia brillante sino alla parodia. Ad indossare i panni del suo compare dal ghigno e dallo sguardo furfanteschi troviamo invece niente meno che il prodigioso burattinaio Andy Serkis, nel passato in grado di stupirci infondendo vita ed emozioni in fredde marionette digitali; il trovarselo di fronte in carne ed ossa conferma ancora una volta la sua predilezione e la sua innata abilità per le performance sopra le righe, che diviene però quasi incapacità di utilizzare un registro dai toni più bassi.
L'accoppiata funziona alla grande, per affiatamento e capacità di trasmettere lo humor nero di cui è permeata la pellicola, che scorre piacevolmente con tempi studiati al centesimo. Il merito della regia e della sceneggiatura è infatti quello di usare una vicenda con precise e drammatiche fondamenta storiche come se si trattasse del canovaccio di una commedia surreale, solamente a tinte un po' fosche: questo da un lato conferisce alla storia una certa solidità e coerenza/plausibilità, mentre dall'altro la alleggerisce, donandole una vivacità ed un brio che altrimenti le sarebbero sconosciuti.
Nell'osservare dall'esterno la perizia con cui questo lavoro viene condotto si ha la fortissima impressione di trovarsi davanti ad un gran film piovuto direttamente dagli Anni Ottanta, con gli immutati pregi di abilità cinematografica, ma anche con il difetto di essere stato costruito come se gli ultimi trent'anni non fossero esistiti (fatta eccezione per il grande cast), a causa di una linearità forse eccessiva che finisce con il mantenere nello spettatore un certo distacco dalla storia che prende forma sul grande schermo.
Anche a voi l'ingrato fardello di stabilire se di difetto si tratti oppure della nostro progressivo disabituarci ad apprezzare le cose semplici...

Voto: 7 1/2
Il ritorno dietro la macchina da presa di uno dei geniali artisti che meglio ha saputo dare voce e volto agli Anni Ottanta cinematografici regala allo spettatore un'opera costruita con una abilità che tecnicamente non teme lo scorrere del tempo, ma che forse si incrina un po' quando spostiamo lo sguardo sulla capacità di catturare e trascinare con sè lo spettatore di cui i suoi lavori precedenti erano magnifici esempi...

lunedì 7 marzo 2011

"Black Swan" ("Il cigno nero")

Affondando le radici del suo pensiero sino alle tradizioni mitologiche del mondo antico, C.S. Jung elaborò il concetto di Ombra, il lato oscuro ed inconscio dell'animo di ogni uomo, coacervo delle sue pulsioni e di quegli istinti che egli ritiene inaccettabili.
Vittima della fascinazione che l'arte da sempre subisce nei confronti di questa realtà, Darren Aronofsky costruisce il suo film per scrutarla nascostamente, per sorprenderne i lampi e la brama di emergere al mondo esterno; per farlo compone come sfondo della vicenda la messa in scena de "Il lago dei cigni" di Čajkovskij, magnifica ode al tema del doppio.

Come in "The Wrestler"egli sceglie di usare la macchina da presa portandola quasi a sbattere contro i personaggi, ossessivamente, quasi fino a denudarli: grazie anche alla fotografia cupa e monocromatica, questo stile 'realista' toglie ai corpi l'algida poeticità, ma restituisce loro la carnalità più assoluta (esemplare la sequenza con la fisioterapista). Anche nel ritrarre l'azione dei ballerini, con movimenti vorticosi e di velocità sempre differenti, si ottiene l'effetto di trasmettere ai gesti drammaticità e passione insostenibili.
Il tema del doppio è l'essenza del film e la sua ragion d'essere, ma non il punto più importante: la perfezione è il punto di fuga della storia, la sua ossessionante ricerca è il motore degli eventi. Per dipingere questo contesto la musica classica diviene uno strumento senza pari, soprattutto se fiorita dall'immaginazione di
Čajkovskij: essa aleggia sopra i personaggi come simulacro di irraggiungibile perfezione, incombendo su ogni singola azione come monito della altrui fallibilità, frustrando i corpi e le menti sino a costringerli ad infrangere i propri limiti. Anche nella sua incarnazione moderna la musica è elevata al rango di protagonista, traducendo in modo quantomeno efficace lo stordimento e l'ebbrezza selvaggi che esplodono con il crollo delle inibizioni.
Per mantenere inalterata la carica drammatica di questo carnale flusso di emozioni è però indispensabile trovare dei corpi perfetti con cui trasmetterlo: l'inquietante madre Barbara Hershey (irrisconoscibile al pari del Mickey Rourke di due anni fa), la rivale tentatrice Mila Kunis (in decisa crescita attoriale e perfettamente in parte) ed il solito Vincent Cassell (di immutati fisicità e magnetismo) sono però solo gradini di una piramide sulla cui cima si posa Natalie Portman. La sua prova lascia letteralmente a bocca aperta, strabiliando ad ogni inquadratura per come riesca a recitare due ruoli opposti passando dall'uno all'altro con il semplice mutar di uno sguardo, per come reciti con ogni parte del corpo, colpendo al petto lo spettatore con ogni sua singola emozione, trascinandolo con sè in una spirale autodistruttiva.
E' un vero peccato che il punto debole della pellicola giaccia proprio in questa caduta verso la perdizione, verso cui lo spettatore è sospinto: il regista la conduce sino all'eccesso, sino ad un livello quasi disturbante, perdendo qualche volta il controllo della storia e dello spettatore, che si ritrova smarrito e disorientato dal balzare confuso tra realtà e fantasia.

Voto: 7+
Moderno tributo ad una tema quantomai affascinante, il film dipinge in modo brillante la battaglia tra il nostro lato chiaro ed il nostro lato oscuro servendosi come strumento di un'altra forma d'arte, il balletto, e dei corpi che ne sono gli strumenti. La perfetta mimesi che si viene a creare con la strepitosa protagonista non viene però guidata con perizia, finendo per rendere il risultato confuso, troppo 'eccessivo' e fine a sè stesso.

venerdì 4 marzo 2011

"True Grit" ("Il Grinta")



TheScreensurfer
7 1/2_Arpia con i pantaloni (Hailee), vecchio ubriacone (Jeff), mandriano babbeo ( Matt) perfetti nella revisione realista, ma non necessaria di un classico

martedì 22 febbraio 2011

"L'arnacoeur" ("Il truffacuori")

Probabilmente influenzato dalla stretta attualità, negli ultimi giorni sono stato stuzzicato dall'idea di affidare per qualche tempo la mia penna di recensore nella mani di un persona come Simone Moro, un alpinista di quella fatta, e di porlo dinnanzi al genere della commedia romantica con il compito di descriverlo utilizzando la sua esperienza.
Mi piace immaginare che il risultato di questo esperimento risiederebbe in un paragone, nel paragone con uno degli Ottomila più impegnativi: poche persone sono riuscite a raggiungere la vetta, ancor meno quelli che hanno aperto o apriranno nuove vie, mentre molti, troppi, sono quelli che senza averne i mezzi si affollano nella salita semplicemente ripercorrendo le orme d'altri, per questo inesorabilmente destinati all'insuccesso. Al giorno d'oggi partire bene e compiere lunghi tratti dell'ascesa è diventato impresa comune, ma è una rarità trovare chi riesca a proseguire oltre il punto in cui diviene indispensabile far conto solo sulle capacità proprie e dei compagni.
A capo di questa spedizione tutta europea de "Il truffacuori" si pone il regista Pascal Chaumeil, circondatosi di una squadra (dall'impronta fortemente transalpina...) guidata da Romain Duris (finalmente quasi libero dalle ultime scorie de "L'appartamento spagnolo"...) e Vanessa 'Ms. Depp' Paradis.
Un osservatore esterno non particolarmente amante dello stile francese si troverebbe probabilmente a nutrire già a questo punto un pizzico di pregiudizio sull'intero progetto, ma la coltre di scetticismo è destinata sorprendentemente a diradarsi sin dalla prima scena, quando l'irrompere della memorabile voce di Dusty Springfield strappa un moto di sorpresa al volto dello spettatore e dà fuoco alle polveri di una colonna sonora grandiosa, capace di mescolare con grandissima efficacia generi e stili molto eterogenei e di divenire uno dei punti di forza del film.
A monte di questa scelta vi è sicuramente anche il lavoro del terzetto di sceneggiatori quasi debuttanti, che decidono di dare alla vicenda un taglio abbastanza insolito da incontrare in questo genere: il lavoro di Alex e del suo team, organizzato con precisione chirurgica e professionalità estrema, impone alla storia un ritmo sorprendente, che riesce nell'impresa di tenerla lontana (per quanto possibile...) da quelle sabbie mobili narrative che sono la mielosità e la scontatezza; senza tralasciare il fatto che questo approccio si rivela fondamentale per creare gli spunti comici di cui è disseminata la pellicola, in grado di regalare momenti di autentico divertimento...
In altre parole il film funziona dannatamente bene, dall'inizio sino alla fine (finalmente una chiusura con i tempi giusti, asciutta e non dilatata abnormemente!), riuscendo anche a non tradire mai la sua connotazione romantica (a riprova di questo pensate al motivo per cui Vanessa Paradis vi sembri sempre più bella con il passare dei minuti...è segno che anche voi siete stati trascinati nel vortice che afferra poco a poco il protagonista...)

Voto:8
Una vera sorpresa
questa sorta di "Mission Impossible" a sfondo romantico, rivelatosi leggero e molto godibile, originale quel tanto che basta per regalare una boccata di aria fresca ad un genere un po' bloccato nell'imitazione di sè stesso.

giovedì 17 febbraio 2011

"The King's Speech" ("Il discorso del re")

Durante la notte del prossimo 27 febbraio i riflettori della cerimonia degli Oscar si accenderanno ed è singolare che due delle opere che saranno più rischiarate dal loro fascio siano "The Social Network" e "The King's Speech", così profondamente diverse in superficie eppure così insospettabilmente simili se scrutate in profondità: entrambe infatti ruotano intorno al punto focale della comunicazione, della sua inarrestabile globalizzazione e di come ha mutato la traiettoria di vite normali ed eccezionali (nella sua accezione letterale).
Negli Anni Trenta del secolo scorso la radio esercita con sempre maggior forza questo potere: divenendo con il passare dei giorni un mezzo indispensabile per diffondere informazioni e raggiungere persone sempre più lontane, essa rende ogni momento più decisiva e discriminante la capacità di servirsi di questo mezzo.
Tale capacità fa certamente difetto ad Albert Frederick Arthur George Windsor - Duca di York (Giorgio VI per i posteri......Bertie per la famiglia......), sin dall'infanzia intrappolato dalla balbuzia e costretto a vagare senza successo di specialista in specialista, fino all'incontro con il poco ortodosso logopedista Lionel Logue.
Ridotto alla sua essenza, il film diretto da Tom Hooper non è altro che il racconto del duetto che viene messo in scena dai due e che li porta, a suon di scaramucce e riappacificamenti, dall'iniziale diffidenza verso una profonda amicizia. L'evolversi di questo rapporto è ben orchestrato da una sceneggiatura dotata di qualità e ritmo, priva di fronzoli ma prodiga di sottotesti che arricchiscono la vicenda principale senza toglierle linfa. Di volta in volta, come voci differenti all'interno di un unico coro, emergono il rapporto con la famiglia ed i figli, il solco scavato tra colonizzatori e colonizzati o tra popolo e nobiltà, la guerra, ecc ... che consentono alla storia di dipanarsi senza battute a vuoto e ne evidenziano l'attitudine da pièce teatrale.
Anche la regia tradisce questa impronta, servendosi di movimenti di macchina semplici e di una fotografia molto "londinese" (per colori e gradazione della luce) che dona alle scenografie ed agli ambienti quelle sembianze quasi bidimensionali proprie dei palcoscenici.
La scelta di un registro essenziale e, per certi versi, classico certamente privilegia l'affidabilità rispetto all'originalità, ma riesce nell'intento di esaltare con efficacia l'elemento più prezioso della pellicola, i suoi interpreti. All'interno di un cast ove ciascuno merita un plauso, da Helena Bonham Carter sino ad un meraviglioso Colin Firth (quanta grandezza vi è nel rendere quel mescolarsi di devastante insicurezza ed ardente orgoglio...), il tutto viene letteralmente oscurato da un monumentale Geoffrey Rush, in grado di dominare lo schermo anche senza profferir verbo (se siete scettici ammirate la sequenza finale...).

Voto:8
Tributo ad un cinema classico, di impronta quasi teatrale, possiede tutti gli ingredienti (grandi attori, ottima scrittura, vicenda a sfondo storico) in grado di attirare i favori della Academy e di colpire anche il grande pubblico, pur senza sfoggiare l'originalità tra i gioielli della sua corona.

giovedì 20 gennaio 2011

"Hereafter" (id.)

Ogni tanto mi sorprendo a chiedermi che sarebbe della mia opera di recensore se madre natura mi avesse fatto dono di quella genialità che rende in grado di descrivere la bellezza assoluta secondo la sua disarmante semplicità, necessitando di ancor meno parole di quante ne richieda la normalità...se così fosse sarebbe immensamente leggero l'affrontare la più recente creazione di Clint Eastwood, descrivere con poche pennellate la straordinaria essenza di arte cinematografica messa in opera dall'ottantenne regista americano.
Questo accade perchè egli torna, dopo la parentesi un po' più 'fredda' di "Invictus", a narrare storie in cui il singolo individuo risplende più della Storia, terreno sul quale è maestro senza eguali. Il suo cinema permette ai personaggi di 'esplodere' sullo schermo con i loro sguardi ed i loro dialoghi, accompagnandoli con il suo stile pulito e perfetto fatto di lente inquadrature che si muovono sullo sfondo di una colonna sonora (ancora una volta 'autocomposta') in cui il silenzio è efficace tanto quanto i delicati accompagnamenti di pianoforte e chitarra. La drammaticità della storia corre così verso lo spettatore proprio come se si trattasse di uno tsunami, in cui la incantevole quiete della storia deflagra nel breve volgere di pochi istanti travolgendolo e portandolo via.
Proprio lo tsunami del 2004 e l'attentato alla metropolitana londinese nel 2005 sono due dei momenti chiave del film, che infatti ruota principalmente intorno al tema della morte e, in modo secondario ma inseparabile come la faccia opposta della medesima medaglia, all'eros di greca memoria...
La fine dell'esistenza terrena viene però osservata concentrando lo sguardo non tanto sui momenti che la precedono, quanto su quelli che la seguono, in questo e nell'altro mondo (l'Hereafter del titolo...); servendosi delle storie di tre persone molto diverse tra loro, il tema portante del film viene dipanato da ciascuna di loro secondo un percorso estremamente umano (anche se qualcuno giudicherà forse eccessive le influenze new age) che, come fiumi uniti dal richiamo del mare, le porterà ad incontrarsi nel corso della vicenda.
Parte essenziale della grandezza del regista consiste proprio nel trattare gli interrogativi connaturati all'uomo in modo tale da non imporci, ma proporci il suo punto di vista, alimentando così il nostro moto ad interrogarci e scuotendoci dal rimanere passivi fruitori delle immagini che scorrono sul grande schermo (esempio irraggiungibile di questo meccanismo rimane "Million Dollar Baby").
Meravigliosa è la capacità di utilizzare il registro tragico, ma non da meno è la perizia nel raccontare con semplicità l'amore, che si tratti di fratelli, di amanti o di semplici sconosciuti che si incontrano ad un corso di cucina (la scena dell'assaggio vale da sola più delle decine di simili già viste in passato...).
In questo quadro vicino alla perfezione sono convinto che solo una nota a molti parrà dissonante, quella emessa da un finale insolitamente lieto; ho però la convinzione che si tratti solo di una sensazione frutto dell'incessante lavorio del mondo moderno, che ci abitua a considerare il finale pessimista come l'unico realistico (oltre a confondere i concetti di tragico e pessimista. Provate a riprendere in mano Gran Torino...a dispetto della tragicità il finale contiene indubbiamente un seme positivo).
E poi, in tutta onestà, non si sarebbe potuta definire degna una chiusura della storia che prescindesse dal sorriso della splendida Cecile De France......

Voto: 9
L'ormai 'noiosamente' meraviglioso Clint Eastwood ci regala un'altra gemma preziosa, appena una spanna inferiore a "Million Dollar Baby" e "Gran Torino", ma immensamente superiore alla gran parte dell'universo cinematografico conosciuto per capacità di emozionare e far riflettere.

lunedì 10 gennaio 2011

"Tron - Legacy" (id.)

Tornate con la vostra mente, solo per un attimo, alla sequenza conclusiva di "Ratatouille"... all'assaggio del piatto che dà il nome alla pellicola...... ricordate il vortice in cui viene risucchiata la memoria emotiva di Ego? Ecco, premessa doverosa a questa mia nuova recensione è che il nome Tron sortisce sulle mie "sinapsi" cervello-cuore il medesimo effetto... Facendosi compagna del passaggio tra infanzia ed adolescenza, la pellicola del 1982 è infatti divenuta il simbolo della prima generazione vera e propria di videogiocatori, contribuendo alla creazione di un nuovo filone della fantascienza.
Diramatasi dal genere classico (che nelle 'galassie' del grande e del piccolo schermo aveva già collocato quelli che sono tutt'ora i suoi capolavori) essa ha posto le fondamenta del cyberpunk cinematografico, che toccherà il suo vertice diciassette anni dopo grazie ad un nerovestito figuro di nome Neo, avente come fulcro la creazione su base elettronica di mondi paralleli al nostro. Proprio questa motivazione ha spinto ad adottare il gioco elettronico come modalità più semplice ed efficace di rappresentazione di questa realtà alternativa, scelta che oggi parrà sin troppo obsoleta, ma che non mancherà di suscitare un sospiro di nostalgia in quanti hanno vissuto in prima persona un periodo storico.
L'impressione forte è che proprio a questo pubblico sia rivolto il film diretto dall'esordiente Joseph Kosinsky, risultando più come un raffinato omaggio che come un vero e proprio tentativo di creare qualcosa di nuovo.
Gli indizi sono disseminati ovunque, a partire dalla scelta di mantenere pressochè invariata (fatta salva la normale evoluzione degli effetti visivi) la cifra stilistica con cui viene messo in scena l'universo di Tron, esaltandone forse anche la "glacialità" elettronica di colori ed ambienti.
Il medesimo discorso si può condurre per il comparto narrativo, in cui lo snodo principale (collocato nel mondo digitale) perde in poco tempo qualsiasi connessione con lo spunto ambientato ai giorni nostri, il cui sviluppo viene interrotto sul nascere (le vicende della ENCOM, il duello appena accennato appena accennato tra il protagonista ed il personaggio di Cillian Murphy, ridotto allo status di cameo). La trama si dipana in una sorta di limbo cristallizzato fuori dal tempo, ricalcando così fedelmente gli stilemi del primo episodio al punto tale da correre il rischio di spiazzare quanti non abbiano già familiarità con la storia precedente (i flashback disseminati qua e là aiutano solo parzialmente); il filo conduttore è solo superficialmente quello tecnologico (l'introduzione degli ISO serve a dare un minimo di struttura alla storia), essendo invece rappresentato dal rapporto padre/figlio in tutte le sue coniugazioni (Kevin/Sam Flinn, Quorra - Kevin Flinn, Clu 2.0 - Kevin Flinn...)
Tirando le somme, il risultato finale finisce però per essere caratterizzato da essenzialità e ritmo fluido, elementi che segnano un punto a favore di questo nuovo capitolo della storia di Kevin Flinn; così il quadro complessivo risulta indubbiamente positivo, tanto più perchè impreziosito da un cast azzeccato (in cui spiccano la presenza e gli occhi magnetici di Olivia Wilde ed un Michael Sheen perfetta mimesi di Ziggy Stardust...) ed una colonna sonora capolavoro (che siate o meno appassionati di musica elettronica...)

Voto: 7 (8++ se siete tra coloro che durante la scena della sala giochi hanno cercato di indovinare i diversi coin-op dalla forma del cabinato...)
Sentito omaggio ad uno dei film culto degli Anni Ottanta, Tron - Legacy viene parzialmente penalizzato dall'essere troppo ancorato ad un concept che a molti potrà sembrare datato e che quindi non potrà possedere a pieno il fascino visionario dell'originale. Visto però nell'ottica di una sorta di recupero filologico, inutile negare la bontà del risultato di make-up e rifinitura, che regala allo spettatore piccole gemme visive e sonore.