mercoledì 21 novembre 2012

"Savages" ("Le belve")

Vi è un fatto innegabile alle radici di questa recensione: alle mie spalle, a far bella mostra di sè su un elegante ripiano di un'elegante libreria, giace l'intera opera in italiano di tale Winslow Don, New York, 1953; ovverosia, per i meno attenti tra voi, l'uomo dalla cui penna (anche di sceneggiatore) ha preso vita la più recente creatura di Oliver Stone. Spero perciò che il lettore vorrà perdonarmi se, talvolta, lascerò che questo fatto porti il mio sguardo a giudicare, più che la qualità cinematografica intrinseca de "Le belve", la fedeltà con cui la pagina scritta è stata trasferita sul grande schermo.
Proprio una delle caratteristiche più importanti dell'opera su carta, il frequente ricorso all'uso del flashback, viene tradotta con semplicità ed efficacia grazie alla presenza della voce narrante di O, cui è delegato il compito di introdurre personaggi e situazioni, ma anche di svelare poco alla volta (sin dall'incipit, che qualche critico affermato ha definito "furbesco"...) la complessità del mondo che fa da teatro alle vicende narrate nel film.
Inizialmente, infatti, i nostri sensi sono storditi dalla bellezza quasi idealizzata di una Baja California a tratti irreale, di volti e corpi votati alla perfezione, di un microcosmo in cui anche lo spaccio di marijuana sembra indossare abiti straordinariamente eleganti (tante sono la classe e l'etica con cui viene condotto) e che ci avvolge ipnoticamente con le note di una grandiosa colonna sonora.
L'immagine che viene evocata nella mente dello spettatore non rimane però un vuoto stereotipo a stelle e striscie, come tanti visti in passato, ma viene utilizzata come perfetto contraltare per la violenza selvaggia che si insinua già nella parte iniziale del film (mi sarebbe però piaciuto vedere un po' più tardi il video dei narcotrafficanti, per rendere ancora più stridente lo scarto) e che deflagra poco alla volta: il contrasto drammatico che viene così a crearsi tra ideale e reale è restituito in maniera superba, mostrandoci come l'immagine che gli U.S.A. desiderano per sè sia in realtà incrinata, appena sotto la superficie, da forze impossibili da incanalare e controllare, che presto o tardi la lacereranno.
Questa efficacia nella rappresentazione è raggiunta anche grazie alla regia di Oliver Stone, che quasi sempre è sotto controllo, a volte ai limiti dell'essenziale, e che quasi sempre evita il ricorso ad eccessive ed inutili spettacolarizzazioni (come la saturazione dei colori e l'overdose di motion blur, che affossavano ad esempio le ultime opere del compianto Tony Scott), affidandosi ad un sapiente lavoro di macchina per trasmettere quanto comunicato naturalmente dai diversi ambienti e dai volti e dai corpi che li popolano: proprio l'eccellente lavoro di casting è un'altra delle frecce all'arco di questa produzione, in grado di regalare allo schermo sguardi e lineamenti che dipingono tutto il campionario delle emozioni umane, dall'amore incondizionato (una Blake Lively "illegale"...) alla ferina sete di sangue (l'ancora una volta perfetto Benicio Del Toro...).
Inoltre le dinamiche tra i vari individui sono ben combinate tra loro nei vari archi narrativi e la pellicola ne risulta ritmata con perizia: il triangolo fra i tre ragazzi, i cui lati sono in perenne movimento, il rapporto con la figura materna di O ed Elena, il contrasto tra le immagini di donna che loro due incarnano, sono alcune delle tessere che servono ad evitare che si formino zone in cui la storia possa ristagnare e a dare al film una dimensione inconsueta rispetto a quelle del classico thriller d'azione.
Per questo l'impressione è quella di trovarsi innanzi ad un piccolo gioiellino, con l'unico difetto di scegliere un finale che non riesce ad essere coraggioso e "giusto" sino in fondo, concedendosi l'unica vera "furbescata" proprio sulla linea del traguardo...

Voto: 8
L'epica winslowiana trova degna trasposizione sul grande schermo nell'ultima opera di Oliver Stone, che mette in scena una tragedia appassionante e carnale, in cui amore e morte turbinano abbracciati muovendo i loro passi lungo la frontiera tra Stati Uniti e Messico.

mercoledì 26 settembre 2012

"The Bourne Legacy" (id.)

Additate da molti critici come inequivocabili segni del degrado verso cui scivola il cinema moderno, le saghe portate sul grande schermo sono invece frequente e preziosa occasione per conoscere meglio e più in profondità il lavoro degli artisti che con esse si misurano, come accade quando l'ammirare più pittori alle prese con il medesimo tema aiuta a comprendere in maniera a volte sorprendente le 'regole' nascoste della loro arte. Il filone incentrato sulle vicende di Jason Bourne, partito un po' in sordina con un primo episodio di discreta fattura, decollò inaspettatamente con i due capitoli successivi, affidati ancora alla penna magistrale di Tony Gilroy, ma quelle volte 'tradotta' in immagini dalla regia di Paul Greengrass (pound for pound, a parere di chi scrive, uno dei dieci migliori all'opera lungo l'orbe terracqueo). Sulla loro scia questa 'prova del quattro' è dunque accompagnata da grandi aspettative e per affrontarle, assiso sulla tolda di comando, è stato designato proprio lo sceneggiatore newyorchese, anche sulla scorta del precedente incoraggiante di "Michael Clayton". Il risultato però, giusto dirlo sin d'ora, non ripaga questa parziale scommessa ed il film naufraga poco per volta, disorientato innanzitutto proprio da una regia che fatica a trovare il giusto equilibrio tra lentezza e frenesia, che muove l'obiettivo della macchina da presa eccessivamente vicino ai volti oppure inutilmente distante dai corpi, quasi a voler instillare nello spettatore delle emozioni che invece ne sono inesorabilmente allontanate. A questo quadro confuso vanno ad aggiungersi le pennellate disordinate cui contribuiscono le scene d'azione (maggiormente concentrate nella seconda parte), che si snodano secondo un clichè indubbiamente valido, ma altrettanto indubbiamente privo di brillantezza ed originalità, colpevolmente incapaci di tenere la platea con il fiato sospeso perchè cosparsi di frammenti così poco plausibili da risultare involontariamente comici. Come si può facilmente intuire, però, il solo emergere di questi difetti non sarebbe sufficiente a pregiudicare in toto il film: l'elemento che fa colare a picco l'intero impianto è, per una bizzarra ironia del destino, proprio la sceneggiatura, fin troppo pasticciata e superficiale per essere vera. Persino la brillante idea di innestare le vicende di questa pellicola negli albori cinematografici di Jason Bourne, sviluppandole parallelamente ai primi tre episodi, è messa in atto in maniera molto confusionaria, lasciando lo spettatore spaesatamente in balia di una ridda di nomi e sottotrame su cui la sua memoria trova scarsissimo appiglio. La storia di Aaron Cross ha uno sviluppo tanto elementare da giungere alle soglie del disarmante, privo di pathos e di quel pizzico di indecifrabilità che è quasi vitale per un buon thriller spionistico; i personaggi sono tracciati grossolanamente e dipinti in maniera desolantemente monodimensionale, gettando al vento l'opportunità di sfruttare in modo adeguato un cast che schiera validi (la sensualmente fragile Rachel Weisz) ed ottimi (i sempre magnetici Renner e Norton) attori. Così, l'idea complessiva che si imprime nella mente di chi assiste allo svolgersi di questo film è quella di una brillante intuizione malamente sviluppata, come se per brillare ci si fosse accontentati della luce riflessa del filone principale, senza essere stati invece spronati a cercare di accenderne una altrettanto luminosa.

Voto: 5
Al quarto passo mosso sul grande schermo, il percorso cinematografico ispirato al mondo creato da Robert Ludlum inciampa in superficialità ed approssimazione, alla scrittura e dietro la macchina da presa. Decisamente sprecata la possibilità di iniziare con il piglio giusto una sorta di spin-off alla storia di Jason Bourne.

mercoledì 1 febbraio 2012

"The Ides of March" ("Le Idi di marzo")

Il 15 marzo del 44 a.C., bagnate dal sangue versato dai congiurati, le Idi di marzo divennero una sorta di simbolo universale del tradimento, la personificazione cruenta dei giochi di potere.
Nel nuovo film di George Clooney non vi è però un solo Cesare od un solo Bruto, perchè tutti i personaggi sono chiamati, prima o dopo, ad interpretare il ruolo di traditore o di tradito, mentre muovono i loro passi lungo il palcoscenico che questa volta ha le sembianze del mondo politico americano.
Il regista di "Good Night, and Good Luck" decide di mettere in scena la spettacolare fase delle elezioni politiche (vera passione della narrativa americana ... suggerisco due perle imprescindibili: letteraria, il racconto "Forza, Simba - Sette giorni in Cammino con un Anticandidato"
di D.F. Wallace, e cinematografica, l'intera terza stagione del serial "The Wire"), concentrandosi, più che sui fatti particolari (quasi dei pretesti), sulle dinamiche che li provocano e che li concatenano, sul movimento degli ingranaggi intrappolati nel movimento di questo sistema.
Clooney probabilmente non ha ancora, come regista, la brillantezza e l'ironia del cinema di denuncia che affonda le sue radici più floride negli Anni Settanta, ma dà una gran bella prova di rigore e pulizia stilistica, costruendo un mosaico in cui ogni pezzo è 'elegantemente' al suo posto e si allaccia perfettamente a quelli circostanti. Prova tanto più apprezzabile perchè, con tocchi quasi impercettibili, riesce a dare corpo e sostanza non solo alle luci, ma anche alle inscindibili ombre che sono proprie dei vari personaggi.
A tal riguardo, come nel già citato "Good Night, and Good Luck", il fondamento di rappresentare un plot rigoroso e ben scritto, ma senza particolari variazioni di ritmo, è proprio quello di servirsi di un cast che dia alla storia le sfumature necessarie, come un blocco di marmo che, sebbene aiutato dalla mano dello scultore, riesca di per sè stesso a dare un valore particolare alla luce ed alle forme.
Davanti a tutti (compresi i bravi Clooney e Tomei) galoppano i due soliti, grandiosi cavalli di razza Seymour Hoffman e Giamatti (rasenti alla perfezione nell'esprimere quel mescolarsi di cinismo e disillusione che marchia a fuoco i loro personaggi), mentre merita qualche riga a parte il superbo Ryan Gosling: ai posteri l'onere di decidere riguardo la sua grandezza di attore, ma non toglie forse il respiro anche a voi contemplare la tenerezza ed il fulgore nel suo sguardo e l'attimo dopo trovarvi a fissare dei lineamenti più freddi del ghiaccio, due occhi dietro cui sembra esserci solo il vuoto?
Il regista merita comunque un ulteriore plauso, per come li guida con mano attenta e sicura e li cuce all'interno della storia alternando con efficacia primi piani e campi lunghi, usando abilmente silenzi e musiche (vd. ad es. la sequenza del dialogo alle spalle della gigantesca Stars and Stripes, che con la sua presenza assordante riempie la scena, oppure la conversazione all'interno del S.U.V., vera lezione di regia).
Presi nel loro complesso tutti questi elementi costruiscono dunque un film che, anche se non originalissimo, è potente ed incisivo nel rappresentare il crollo degli ideali in certa parte del mondo moderno, travolti da un meccanismo semplice quanto inesorabile che Niccolò Macchiavelli aveva codificato con sbalorditiva lucidità già cinque secoli fa: il fine giustifica i mezzi.

Voto: 7 1/2
Analisi lucida ed impietosa della società (non solo politica) americana, l'opera quarta del George Clooney regista non mette in scena elementi originali, ma regala comunque un ritratto che spicca per sguardo, intelligenza della narrazione ed interpreti.