mercoledì 26 settembre 2012

"The Bourne Legacy" (id.)

Additate da molti critici come inequivocabili segni del degrado verso cui scivola il cinema moderno, le saghe portate sul grande schermo sono invece frequente e preziosa occasione per conoscere meglio e più in profondità il lavoro degli artisti che con esse si misurano, come accade quando l'ammirare più pittori alle prese con il medesimo tema aiuta a comprendere in maniera a volte sorprendente le 'regole' nascoste della loro arte. Il filone incentrato sulle vicende di Jason Bourne, partito un po' in sordina con un primo episodio di discreta fattura, decollò inaspettatamente con i due capitoli successivi, affidati ancora alla penna magistrale di Tony Gilroy, ma quelle volte 'tradotta' in immagini dalla regia di Paul Greengrass (pound for pound, a parere di chi scrive, uno dei dieci migliori all'opera lungo l'orbe terracqueo). Sulla loro scia questa 'prova del quattro' è dunque accompagnata da grandi aspettative e per affrontarle, assiso sulla tolda di comando, è stato designato proprio lo sceneggiatore newyorchese, anche sulla scorta del precedente incoraggiante di "Michael Clayton". Il risultato però, giusto dirlo sin d'ora, non ripaga questa parziale scommessa ed il film naufraga poco per volta, disorientato innanzitutto proprio da una regia che fatica a trovare il giusto equilibrio tra lentezza e frenesia, che muove l'obiettivo della macchina da presa eccessivamente vicino ai volti oppure inutilmente distante dai corpi, quasi a voler instillare nello spettatore delle emozioni che invece ne sono inesorabilmente allontanate. A questo quadro confuso vanno ad aggiungersi le pennellate disordinate cui contribuiscono le scene d'azione (maggiormente concentrate nella seconda parte), che si snodano secondo un clichè indubbiamente valido, ma altrettanto indubbiamente privo di brillantezza ed originalità, colpevolmente incapaci di tenere la platea con il fiato sospeso perchè cosparsi di frammenti così poco plausibili da risultare involontariamente comici. Come si può facilmente intuire, però, il solo emergere di questi difetti non sarebbe sufficiente a pregiudicare in toto il film: l'elemento che fa colare a picco l'intero impianto è, per una bizzarra ironia del destino, proprio la sceneggiatura, fin troppo pasticciata e superficiale per essere vera. Persino la brillante idea di innestare le vicende di questa pellicola negli albori cinematografici di Jason Bourne, sviluppandole parallelamente ai primi tre episodi, è messa in atto in maniera molto confusionaria, lasciando lo spettatore spaesatamente in balia di una ridda di nomi e sottotrame su cui la sua memoria trova scarsissimo appiglio. La storia di Aaron Cross ha uno sviluppo tanto elementare da giungere alle soglie del disarmante, privo di pathos e di quel pizzico di indecifrabilità che è quasi vitale per un buon thriller spionistico; i personaggi sono tracciati grossolanamente e dipinti in maniera desolantemente monodimensionale, gettando al vento l'opportunità di sfruttare in modo adeguato un cast che schiera validi (la sensualmente fragile Rachel Weisz) ed ottimi (i sempre magnetici Renner e Norton) attori. Così, l'idea complessiva che si imprime nella mente di chi assiste allo svolgersi di questo film è quella di una brillante intuizione malamente sviluppata, come se per brillare ci si fosse accontentati della luce riflessa del filone principale, senza essere stati invece spronati a cercare di accenderne una altrettanto luminosa.

Voto: 5
Al quarto passo mosso sul grande schermo, il percorso cinematografico ispirato al mondo creato da Robert Ludlum inciampa in superficialità ed approssimazione, alla scrittura e dietro la macchina da presa. Decisamente sprecata la possibilità di iniziare con il piglio giusto una sorta di spin-off alla storia di Jason Bourne.