giovedì 17 febbraio 2011

"The King's Speech" ("Il discorso del re")

Durante la notte del prossimo 27 febbraio i riflettori della cerimonia degli Oscar si accenderanno ed è singolare che due delle opere che saranno più rischiarate dal loro fascio siano "The Social Network" e "The King's Speech", così profondamente diverse in superficie eppure così insospettabilmente simili se scrutate in profondità: entrambe infatti ruotano intorno al punto focale della comunicazione, della sua inarrestabile globalizzazione e di come ha mutato la traiettoria di vite normali ed eccezionali (nella sua accezione letterale).
Negli Anni Trenta del secolo scorso la radio esercita con sempre maggior forza questo potere: divenendo con il passare dei giorni un mezzo indispensabile per diffondere informazioni e raggiungere persone sempre più lontane, essa rende ogni momento più decisiva e discriminante la capacità di servirsi di questo mezzo.
Tale capacità fa certamente difetto ad Albert Frederick Arthur George Windsor - Duca di York (Giorgio VI per i posteri......Bertie per la famiglia......), sin dall'infanzia intrappolato dalla balbuzia e costretto a vagare senza successo di specialista in specialista, fino all'incontro con il poco ortodosso logopedista Lionel Logue.
Ridotto alla sua essenza, il film diretto da Tom Hooper non è altro che il racconto del duetto che viene messo in scena dai due e che li porta, a suon di scaramucce e riappacificamenti, dall'iniziale diffidenza verso una profonda amicizia. L'evolversi di questo rapporto è ben orchestrato da una sceneggiatura dotata di qualità e ritmo, priva di fronzoli ma prodiga di sottotesti che arricchiscono la vicenda principale senza toglierle linfa. Di volta in volta, come voci differenti all'interno di un unico coro, emergono il rapporto con la famiglia ed i figli, il solco scavato tra colonizzatori e colonizzati o tra popolo e nobiltà, la guerra, ecc ... che consentono alla storia di dipanarsi senza battute a vuoto e ne evidenziano l'attitudine da pièce teatrale.
Anche la regia tradisce questa impronta, servendosi di movimenti di macchina semplici e di una fotografia molto "londinese" (per colori e gradazione della luce) che dona alle scenografie ed agli ambienti quelle sembianze quasi bidimensionali proprie dei palcoscenici.
La scelta di un registro essenziale e, per certi versi, classico certamente privilegia l'affidabilità rispetto all'originalità, ma riesce nell'intento di esaltare con efficacia l'elemento più prezioso della pellicola, i suoi interpreti. All'interno di un cast ove ciascuno merita un plauso, da Helena Bonham Carter sino ad un meraviglioso Colin Firth (quanta grandezza vi è nel rendere quel mescolarsi di devastante insicurezza ed ardente orgoglio...), il tutto viene letteralmente oscurato da un monumentale Geoffrey Rush, in grado di dominare lo schermo anche senza profferir verbo (se siete scettici ammirate la sequenza finale...).

Voto:8
Tributo ad un cinema classico, di impronta quasi teatrale, possiede tutti gli ingredienti (grandi attori, ottima scrittura, vicenda a sfondo storico) in grado di attirare i favori della Academy e di colpire anche il grande pubblico, pur senza sfoggiare l'originalità tra i gioielli della sua corona.

1 commento:

piratz1 ha detto...

Di sicuro non un film originale, come ben detto da lei. In questo caso però la non originalità non è un punto negativo.
La commedia, nella sua normalità, è piena d'umanità. Di fatto molto vicina a tutti..

Capisco che a lei piacciano i sogni e le grandi epopee (e le poppee)...