martedì 12 ottobre 2010

"Inception" (id.)

Gli occhi chiusi..la penna mollemente adagiata fra le dita..nei miei panni da recensore mi preparo ad affrontare un'impresa che ha i lineamenti dell'impossibile, quasi si trattasse di risvegliarsi improvvisamente e catturare su di un foglio un sogno e le sue sfumature, raccontarlo senza tacerne alcun paradosso o stupefacente invenzione. Un sogno senza apparente soluzione di continuità è infatti l'ultima creazione di Christopher Nolan, il suo (sperando mi si perdoni l'ardire...) capolavoro.
Tratto distintivo delle sue opere è sempre stata questa sorta di insaziabile passione per l'intreccio complesso (di cui gli occhi dello spettatore riescono a svolgere il bandolo solo un po' alla volta), per il gioco guidato dall'unica regola che ciò che si vede spesso non coincide con la realtà; da "Memento" fino a "The Dark Knight", passando per "Insomnia" e "The Prestige", è stato possibile accorgersi di questo germoglio, che ora è compiutamente fiorito in "Inception". Agendo con tempi scenici giunti ad un passo dalla perfezione la mano del regista costruisce per la nostra mente un labirinto a dir poco magistrale: complesso quanto basta per pungolare senza sosta la nostra intelligenza e la nostra curiosità, ma non al punto da lasciarci smarriti fra le pieghe della trama.
La sceneggiatura è stata tessuta dai fratelli Nolan per dieci lunghi anni, ma il risultato di questo incessante lavoro di composizione e cesellatura è davanti ai nostri occhi sin dalla prima sequenza: la storia è densa e complessa, avvincente ed originale, ingannevolmente travestita da pellicola d'azione ed invece esplorazione fra le nebbie dei meccanismi con cui opera la mente umana. Senza dimenticare che il tutto funziona ad orologeria: le variazioni di ritmo sono impeccabili e i diversi piani del racconto sono concatenati con lo stesso meccanismo sorprendentemente semplice ed inesorabile per cui la caduta di una tessera del domino può provocare quella di altre centinaia.
E all'altezza della corsa mozzafiato si dimostra anche il traguardo finale (riguardo al quale sono debitore verso mio fratello della similitudine con il finale di Blade Runner ed il suo potere allusivo e chiarificatore) che, pur chiudendo perfettamente il circolo delle vicende, non "sigilla" completamente la storia, ma ci lascia ancora il pungolo per rielaborarla e scovarne i segreti.
Così, alla testa di un cast brillante ed affiatato, Leonardo Di Caprio (all'ennesima scommessa vinta della sua luminosa carriera) si trova a guidarci all'interno del primo vero erede/rivale di Matrix, con cui compete testa a testa in tutti gli aspetti e a cui cede forse una spanna di vantaggio in quei momenti in cui la complessità corre il rischio di tramutarsi in complicazione.

Voto: 9+
Degno erede di "Blade Runner" e "Matrix", la nuova pietra miliare del cinema di Fantascienza (la F è volutamente maiuscola) si rivela un meraviglioso rompicapo, magistralmente architettato per non concederci un attimo di respiro e per intrappolare la nostra mente in un mondo immaginario da cui fuggire non sarà semplice come far ruotare una trottola...

lunedì 11 ottobre 2010

"Bright Star" (id.)

Come novelli don Chisciotte sfidati dai mulini a vento, ci troveremmo destinati ad inseguire un'illusione se cercassimo di individuare e classificare le ragioni per cui l'arte ci riesce ad emozionare, di tendere un filo di oggettività che ci consenta di prevedere le nostre reazioni di fronte ad essa. Esempi perfetti sono la pittura ed il cinema stesso, ma è impossibile dimenticare la poesia, alla base dell'ultima fatica di Jane Champion. La regista neozelandese (su proprio soggetto) decide di raccontare un frammento della breve e tormentata esistenza di John Keats, alfiere dell'ottocentesco romanticismo inglese, e del bruciante rapporto con la sua 'musa' Fanny Brawne.
Per farlo impugna la macchina da presa con delicatezza e quasi con pudore, 'spegne' la tonalità di molti colori ed accompagna il tutto con una colonna sonora lieve ed intessuta di archi. Questa sorta di sguardo 'neutro' con cui decide di farci osservare le vicende è un'impronta stilistica che per sua natura vive nel rischio di trasformare il tutto in un semplice documentario, ma in questo caso non fa altro che lasciare agli elementi della narrazione la libertà di emergere spontaneamente, rispettandone e preservandone le peculiarità.
Così, nel tessuto della vita nella campagna inglese di metà Ottocento, risplendono i fili delle poesie e degli sguardi dei due incantevoli protagonisti.
Il Keats di Ben Whishaw è tormentato, solitario ed affascinante, tanto fragile da sembrare in ogni istante sul punto di spezzarsi sotto il peso delle circostanze quanto in grado di trasmettere forza palpitante e travolgente nelle parole vergate su piccoli e sparsi frammenti di carta; incapace di sentirsi parte di un mondo alle cui emozioni riesce a dar voce meglio di chiunque altro.
Ma il vero splendore del film è tutto racchiuso nel volto e nelle movenze di Abby Cornish, tanto più stupefacente in quanto lontana da ogni forma di artificiosità. Così, illuminata dal germe di anticonformismo e ribellione che le alberga nel cuore, si muove con grazia tra le pieghe della storia, incuriosendo ed affascinando lo spettatore che, come il protagonista maschile, si trova a poco a poco avvinto dalla spirale che conduce verso l'amore bruciante e totalizzante.
Dal punto di vista cinematografico il lavoro della Champion è superbo proprio perchè riesce ad immergerci in queste vicende senza interporre filtri, ma proprio questo sarà per molti un elemento penalizzante:il film è permeato dello spirito dell'epoca e dei protagonisti e finisce con l'assumerne totalmente la forma, quindi non me la sento di condannare chi cadrà presto preda della noia a causa di una vicenda estranea e lontana dal proprio modo di sentire e pensare.
D'altronde, come si diceva all'inizio, beato colui che riuscirà a trovare il fulcro su cui agisce l'arte per emozionarci...

Voto: 8 1/2
La più recente opera in costume di Jane Champion regala momenti di autentica e vibrante poesia, anche se la veste scelta per la rappresentazione correrà forse il rischio di essere d'ostacolo all'empatia di chi non nutre un'intensa passione per il mondo descritto dalla regista neozelandese.

martedì 22 giugno 2010

"Iron Man II" (id.)

La risposta alla ricerca lanciata da Franco Battiato negli Anni Ottanta è ora saldamente nelle mani degli sceneggiatori chiamati a trasporre sul grande schermo le più celebrate opere a fumetti mondiali, che hanno eletto a centro di gravità permanente dei sequel da loro scritti la nascita e l'epifania di un grande villain, di un grande 'cattivo'.
Non fa eccezione il film diretto ancora una volta da Jon Favreau che, prima che dalle mosse di Tony Stark, prende avvio e linfa dalla volontà geniale, inesorabile e spietata dell'Ivan Vanko impersonato da Mickey Rourke (capace di farci giungere ancora qualche bagliore dall'oblio in cui è precipitato e di cui il volto tumefatto ed irriconoscibile è il segno più chiaro ed evidente), filo conduttore di una storia che, eccezion fatta per l'episodio monegasco, è maggiormente caratterizzata da un'unità di tempo e soprattutto di luogo. Le escursioni 'mediorientali' sono abbandonate non solo geograficamente, ma anche metaforicamente: i demoni da sconfiggere si celano dentro di noi e nel nostro passato, con un'enfasi maggiore di quanto avvenisse nel primo capitolo.
Tutto questo viene incarnato dalla spirale autodistruttiva in cui precipita Tony Stark, per la seconda volta reso 'vivo' da Robert Downey Jr., per cui onestamente vorremmo che questa seconda vita cinematografica durasse in eterno.
Proprio un innegabile punto di forza, come sa essere questo protagonista egocentrico, magnetico, spettacolarmente esagerato, è però la spia che mette a nudo il tallone d'Achille che finora era stato in qualche modo celato, nient'altro che la cinematografica conseguenza delle fumettistiche imperfezioni: la disparità tra supereroe ed alter-ego è troppo sbilanciata a favore di quest'ultimo e penalizza notevolmente il racconto quando il miliardario americano veste la livrea oro e porpora (i combattimenti, ad esempio, volano ad un livello appena più alto della mediocrità...); tanto più se, come accade più di frequente rispetto alla prima pellicola, la sceneggiatura ogni tanto abbandona i personaggi e vive un po' troppo di alti e bassi.
Così viene condizionato anche il lavoro del pur notevole cast (con tutto il rispetto per i sempre rimarchevoli Jackson, Rockwell e Paltrow, la Scarlett Johansson rivisitata in salsa action merita il prezzo di uno, due, forse tre biglietti...) e anche qualche buona idea non viene adeguatamente sorretta (ogni riferimento al ruolo della S.H.I.E.L.D. ed al rapporto di Tony con il proprio padre non è puramente casuale...!)

Voto: 7-
Onesto ed ennesimo frutto del filone supereroistico americano, un film che si lascia piacevolmente guardare pur senza staccarsi particolarmente dalla routine del genere.

lunedì 12 aprile 2010

"It's Complicated" ("E' complicato")

In epoca di sondaggi ed elezioni, il mio più recente ballottaggio personale per la serata al cinema si è svolto nel campo della commedia, tra la Happy Family di Salvatores ed il mondo Complicato diretto da Nancy Meyers. A far pendere la mia scelta in direzione di quest'ultimo ci ha pensato la mia incurabile esterofilia, ma anche la riflessione che, pur avendo molto apprezzato il lavoro della regista americana, ho sempre mantenuto sospeso il giudizio su di lei.
Guardando i suoi film (a partire da "What Women Want") l'impressione che si avverte è quella di osservare un bravo chef intento nella preparazione di un soufflé che non ne vuole sapere di riuscire: gli ingredienti sono tutti di alta qualità, la ricetta è eseguita con grande cura ed abilità, ma i tempi con cui chiudere la cottura (necessariamente perfetti...) si rivelano invariabilmente sbagliati ed il risultato finale non assume la forma sperata. Così i suoi film, dopo la prima parte intrigante e promettente, si accartocciano per colpa di tempi sbagliati nella storia, o troppo affrettati o troppo dilatati.
Esattamente il contrario è quanto avviene nell'ultima pellicola, che parte un po' a rilento, con un velo di tristezza a posarsi su una vicenda ravvivata appena da alcuni guizzi che però rischiano di ridurre il tutto a nient'altro che ad una macchietta "over 50" di "Sex and The City".
Invece, giusto ad un passo dal fare scattare il tedio nello spettatore, il tono della storia comincia ad aumentare il numero dei colpi ed a divenire via via più brillante. Diviene chiaro che la mano della regista ha sempre avuto l'intenzione ed il merito di adattarsi empaticamente allo stato d'animo della protagonista, che nella parte centrale viene poco per volta trascinata in un vortice di crescente e spensierta euforia.
Si ride di gusto (imperdibile la sequenza dello spinello...) e la sceneggiatura non accusa passaggi a vuoto, complicandosi progressivamente per intelligente pianificazione e non come tentativo improvviso di rianimare una trama che si sta lentamente prosciugando.
In un immaginario discorso da premio Oscar, il ringraziamento più sentito per la riuscita del film sarebbe però rivolto alle due colonne su cui si poggia tutto il lavoro del cast (tra cui un insolito e misurato comprimario come Steve Martin..): l'immensa Meryl Streep (il senso della sua grandezza è abbacinante nella capacità di mutare il registro comico in drammatico nel breve volger di una inquadratura...) che fonde l'anima brillante esplosa in "Mamma Mia" con i tratti misurati di Julia Child (ad un passo dal regalarle la terza statuetta) ed il sempre più sorprendente Alec Baldwin. Le capacità attoriali continuano probabilmente a navigare nella mediocrità, ma i ruoli che negli ultimi anni gli vengono cuciti addosso (dal quasi cameo in "Alla fine arriva Polly" al geniale Jack Donaghy della serie "30 Rocks") lo rendono perfetto ed irresistibile.
Circondati da attori validi ed in grado di assecondarli efficacemente, riescono a dare volto e voce ad una storia che in maniera bella e non banale mette in scena ciò che le donne (e gli uomini) veramente vogliono.

Voto: 7/8
Alla prova della nove dopo i precedenti tentativi non perfettamente riusciti, Nancy Meyers centra il bersaglio con un film ben scritto e ben diretto, che descrive efficacemente ma con leggerezza quella tempesta di sentimenti, gioie e dolori che non ha e non avrà mai età.

sabato 27 marzo 2010

"Alice in Wonderland" (id.)

Ci sono momenti in cui mi diverto ad immaginare il funzionamento della geniale mente di Tim Burton, ad immaginare quali siano i meccanismi che la governano e le immagini che la affollano: ad un visitatore che vi piombasse dentro sono quasi certo essa apparirebbe come la materializzazione della tana del Bianconiglio, in cui si troverebbe a precipitare vorticosamente mentre oggetti di ogni fatta e provenienza gli sfrecciano accanto e nel suo turbinare lo accompagnano volti e personaggi ormai familiari, il Pinguino a braccetto con Edward Mani di Forbice, la testa di zucca di Jack Skellington ad inseguire il volto sorridente della Sposa Fantasma o Beetlejuice a sbeffeggiare Willy Wonka ed i suoi Humpa Lumpa. Ma alla fine della lunga discesa troverebbe un solo personaggio ad attenderlo, l'Alice intenta a chiedersi come passare attraverso quella minuscola porticina ed incarnazione più pura dello spirito del regista di "Big Fish": non Peter Pan, rinchiuso nella propria adolescenza, ma questa ragazzina inglese che cresce lasciando fiorire giorno dopo giorno il seme piantato dal Paese delle Meraviglie. Questa è la ragione per cui è divenuto forse il migliore raccontatore di favole che il cinema abbia avuto, per la capacità di sfilare le storie dalla loro natura idealizzata e bidimensionale tingendole con nervature di nero umorismo che le allaccia alla realtà senza togliere nulla alla loro capacità di essere magiche e poetiche. Così in "Alice in Wonderland" la protagonista è ormai cresciuta, perdendo il ricordo (o meglio credendolo sogno...) del primo viaggio nel Paese delle Meraviglie, che ora ritrova decadente ed oscurato dalla tirannia della Regina di Cuori (una spettacolare, crudelissima e mapocciona Helena Bonham Carter), anche se ancora popolato da tutti i suoi vecchi amici, ricreati in modo grandioso: i gemelli Panco Pinco e Pinco Panco (spassosi, surreali, indimenticabili), l'evanescente e gigione Stregatto (unico vero bonus della visione tridimensionale), l'ascetico ed oracolesco Brucaliffo o la perfettinamente insopportabile Regina Bianca (azzeccatissima Anne Hathaway). Lascio volutamente per ultimo il Cappellaio Matto interpretato da Johnny Depp, all'ennesima stupenda trasformazione e sempre più bravo: folle, stralunato, bizzarro senza perdere una stilla del suo fascino, 'la musa' del regista ne è strumento perfetto per guidare Alice (e noi) nel Paese delle Meraviglie, perchè incapace di liberarsi dalla sua dimensione di fantasia ma in grado di insegnare come tale meraviglia possa volare fino alla realtà ed essere usata per superarne gli ostacoli.

Voto: 8/9

Una delle più riuscite favole targate Tim Burton, appena un po' penalizzata dal finale non troppo originale, geniale nel rivisitare le tradizioni di disneyana memoria con pennellate dark o kitsch che rendono il risultato finale assolutamente unico e molto più 'profondo' di quanto si potrebbe credere.

sabato 20 marzo 2010

"Invictus" (id.)

"Dal profondo della notte che mi avvolge, buia come il pozzo che va' da un polo all'altro, ringrazio tutti gli dei per la mia anima indomabile".
Questi sono i versi che aprono la poesia di W.E. Henley in cui è racchiusa la chiave di volta del nuovo film di Clint Eastwood , storia di un uomo che mantenne il cuore 'invictus' nonostante gli sferzanti colpi della sorte, che con il suo esempio spinse una nazione intera a rialzare la testa e due popoli in guerra tra loro a scoprirsi come le due diverse facce della stessa medaglia.
Per la terza volta (dopo i gemelli "Flags of Our Fathers" e "Letters from Iwo Jima") il maestro americano torna a misurarsi con la Storia, che questa volta ci fa osservare usando come una lente la figura di Nelson Mandela (interpretato in modo indescrivibile da Morgan Freeman, che ne ruba sembianze, movenze, carisma...), adottando il punto di vista dell'individuo che è riuscito ad elevarsi al di sopra di essa sino a riscriverne le pagine e a farne riscrivere le pagine a uomini e donne che mai avrebbero immaginato di poterlo fare, proprio come accadde ai membri della nazionale sudafricana che contro ogni aspettativa trionfò ai Mondiali di rugby del 1995.
Perchè questa è anche una storia di sport (per l'ennesima volta la più semplice e concreta metafora della vita) e di come venne usato là dove la coltre di diffidenza ed odio sembrava insuperabile: è quasi un logico segno del destino che questo sia stato possibile grazie al rugby, disciplina 'poesia del sacrificio' ed emblema quasi insuperabile di coesione e di volontà indomabile.
La principale sfida che il regista di "Potere Assoluto" ha dovuto affrontare è stata quella di far traspirare dal grande schermo le sensazioni proprie del rugby senza spogliarlo di ogni parvenza di realismo, sfida inevitabile per chi decide di narrare storie di uomini e di sport: il risultato finale è veramente buono, probabilmente soddisfacente anche per i puristi, soprattutto grazie alla scelta di concentrare poco l'attenzione della telecamera sull'ovale e di utilizzarla invece per esaltare al massimo la fisicità fatta di dinamismo ed impatti, di fatica insostenibile e risolutezza a non cedere mai.
Questa sfida vinta però accompagnata da un inesplicabile senso di incompletezza, quasi di insoddisfazione, che sorge nello spettatore. Il percorso che ci ha condotto sin qui è passato attraverso "Million Dollar Baby", "Changeling", "Gran Torino" ed avvertiamo che le sensazioni provate non sono le stesse, che le emozioni suscitate vibrano solo in superficie e non ci scuotono nel profondo. Sembra quasi che sia smarrita la tensione drammatica nella narrazione (fa capolino a tratti solo nella sequenza del carcere), forse perchè la volontà dei personaggi di lasciarsi il passato alle spalle viene tradotta sin troppo concretamente nel film (quasi nulli i flasback o i richiami ad esso...) e le loro azioni risultano così impoverite di significato. E questo contribuisce a far sì che lo spettatore si senta un po' più distante da una vicenda che già di suo è talmente vera ed incredibile da risultare falsa ed eccesivamente retorica.
Può capitare qualche volta che la storia che ci viene raccontata non ci colpisca molto favorevolmente, ma questo non significa non apprezzare od ammirare l'opera del narratore. Soprattutto se, come nel caso di Eastwood, sia il miglior narratore che potreste desiderare.

Voto: 8
Il solito, immenso Clint Eastwood alle prese con un film sulla Storia, sull'uomo e di come abbiano deciso di incontrarsi su un campo da rugby: per una volta "solo" cinematograficamente perfetto e un po' meno emozionante delle ultime meravigliose opere.

lunedì 15 marzo 2010

"Avatar" ("Avatar - 3D")

Nel corso della carriera di critico ci si trova a doversi tuffare in un variegata moltitudine di film, dal piccolo capolavoro rimasto quasi sconosciuto al blockbuster miseramente fallito su scala mondiale.
La scelta di andare a vedere Avatar a più di due mesi dall'uscita mondiale ha comportato l'affrontare una pellicola che ha piazzato entrambi i piedi nella storia del cinema, dato oggettivo ed inequivocabile che avrebbe potutto pesare come un macigno sulla visione (sia positivamente che negativamente) e che invece è semplicemente svanito non appena si sono spente le luci in sala, insieme a tutto il bailamme di chiacchere ed anticipazioni smosse ad arte dalla invasiva campagna di marketing.
Inutile negare che l'impatto sia assolutamente sbalorditivo, ma la cosa più sorprendente è come tutta la magnificenza tecnica e scenica (finalmente si può parlare di tridimensionalità nel senso compiuto del termine) non sia gettata addosso allo spettatore, ma venga usata per attrarlo poco a poco nell'alieno mondo di Pandora: come il protagonista, ci troviamo ad entrare in un mondo sconosciuto e meraviglioso muovendo intorno lo sguardo come bimbi pieni di curiosità e stupore, lasciando un po' per volta alle nostre spalle il mondo da cui veniamo e rendendo sempre più difficile anche per noi il distacco del soldato Sully dall'avatar ed il ritorno alla realtà. Questo crescendo è costante ed inesorabile, diretto dalla mano sicura e capace di un regista come James Cameron, la cui bravura non è mai stata nè sarà mai decretata dai premi vinti: capace di spaziare tra vari generi cinematografici sempre con risultati di assoluto valore (da Terminator I & II a True Lies, da Aliens a Titanic..), è divenuto con il tempo forse il più grande esempio di come la tecnica possa essere asservita al fluire del film, esaltandolo invece che mortificandolo. Certo, in Avatar gli và riconosciuto il vantaggio di aver potuto lavorare ad un mondo creato senza vincoli ed imposizioni, ma è chiara la sensazione che un altro regista non sarebbe riuscito a dare forma così perfetta all'immaginazione degli sceneggiatori.
I più curiosi di voi si staranno però chiedendo perchè, se è tutto così incredibile, avvincente e persino emozionante, abbia riservato a questo film un voto che lo separa di un passo dall'eccellenza.
Il motivo và semplicemente cercato in quei molti, moltissimi momenti di cui Avatar è debitore nei confronti di ''Balla coi lupi'', i momenti in cui i passi di Jack Sully (un Sam Worthington pronto a spiccare il volo verso la celebrità, per ora perfetto physique du role) sembrano sovrapporsi a quelle del soldato John Dumbar.
E' sicuramente oggetto di discussione se l'originalità consista più nel mostrare cose nuove oppure nel mostrare in modo nuove cose già note, ma rimane il fatto che questo film sia un ramo, per quanto meraviglioso, innestato su una pianta che altre mani hanno collocato nel terreno.
Non è ovviamente un difetto capitale, però è quel tanto che secondo me giustifica il volerlo mettere appena un gradino sotto il capolavoro che lo ha preceduto, senza togliere nulla al fantastico viaggio nel mondo dei Na'vi.


Voto: 8,5
Anche senza la carica rivoluzionaria di "Matrix", un film che alza l'asticella della spettacolarità sul grande schermo, ispirandosi alla storia degli indiani d'America per condurci in un viaggio stupefacente ed avvincente sulla superficie del pianeta Pandora.

lunedì 22 febbraio 2010

"Le concert" ("Il concerto")

A volte succede.
A volte accade che le mani dell'istinto e della sorte mi conducano di fronte a film che in mille altre occasioni avrei semplicemente ignorato, cavalcando la mia avversione verso quel cinema per cui si ritiene che l'essere di nicchia sia sufficiente motivo di valore.
A volte accde che le mani della sorte e dell'istinto ti facciano trovare un gioiello prezioso e di commuovente bellezza.
E' questo, semplicemente, il film diretto da Radu Mihaileanu, cucito intorno al concerto per violino (in Do Maggiore - Op.35...) di Tchaikovsky ed all'ossessione di cui è fonte per l'ex direttore d'orchestra Andrei Filipov (un Aleksei Guskov tormentato, consumato, incredibilmente magnetico): ai suoi occhi esso simboleggia infatti la perfetta armonia, proprio perchè perfetta eternamente inseguita e (forse) eternamente irraggiungibile.
Tutta la pellicola diventa così anch'essa una ricerca dell'armonia, ricerca del momento miracoloso in cui il coro di voci dissonanti si trasforma in un'unica melodia. Ogni momento della storia (miscela brillante di comicità e dramma, popolata di personaggi surreali, bizzarri, spassosi, così perfetti nelle loro palesi imperfezioni) rappresenta un passo mosso dallo spettatore verso il concerto finale, così carico di emozioni da mozzare il fiato e velare gli occhi di lacrime.
In questo si svela tutta la magia del cinema e la bravura del regista rumeno che ne è strumento: nel modo in cui l'evento viene messo in scena non lo si rende solamente un'espressione di virtuosismi musicali, ma lo si fa vibrare delle storie, del cuore di ciascuno dei protagonisti, donandogli quell'unicità e quella irrepetibilità che sono la grandezza stessa della musica classica e rendono indimenticabili le due ore in cui siamo stati prigionieri di quella magnifica ossessione.

Voto: 9
Dramma dipinto con pennellate a toni comici e surreali, con la ricetta vincente già vista in Train de Vie, che parla di perdita e di riscatto, di realismo e di ossessione, con tutta la magica potenza della musica classica e del cinema.

venerdì 5 febbraio 2010

"Up In The Air" ("Tra le nuvole")


Tra le nuvole, sospesa nell'aria, così è la vita di Ryan Bingham (George Clooney), metaforicamente e concretamente limbo isolato e dimensione privilegiata rispetto a quella in cui si muove il resto del mondo. Di questa esistenza ci vengono taciuti i viaggi veri e propri, ma ce ne viene invece mostrato il continuo nutrirsi dei rituali che preludono e seguono ad ogni volo (la 'composizione' del trolley, la 'passerella' dell'imbarco, ...) e che sono portati ad elitaria e scientifica perfezione.
Così un po' alla volta questa routine cattura lo spettatore, facendolo sentire a suo agio in questo universo parallelo che esiste per sollevare (lui e) il protagonista da quel limo di dolore, disperazione e rabbia che il lavoro di "tagliatore di teste" su commissione costringe ad attraversare un giorno dopo l'altro.
Man mano che la pellicola procede il volo ed il viaggio diventano sempre più evidentemente come il guscio eretto intorno a sè da uomini e donne cui la vita con i piedi a terra domanda o sembra domandare troppo, istante dopo istante.
Di questo si accorge presto anche Nathalie (una Anna Kendrick che speriamo rimanga indenne dal suo viaggio adolescenziale nella saga di Twilight...), elemento femminile che dall'esterno si infiltra nel mondo di Bingham e cerca di sovvertirlo con l'idealismo della sua gioventù, cui fa da contraltare la figura della Alex interpretata dall'incantevole Vera Farmiga [The Departed], creatura che invece appartiene in tutto e per tutto a quel mondo e ne incarna il disincanto ed il quasi cinico accontentarsi. Amanti, allieve, amiche, sorelle: nel bene e nel male sono le donne il sottile filo rosso che riemerge dalle pieghe della storia e che ne guida le fila.
Jason Reitman [Thank You for Smoking, Juno] dà vita ad una maiuscola prova di regia dirigendo un film che parla della solitudine e dell'amore, della famiglia e del lavoro, del perdere tutto e del ritrovare sè stessi. Lo fa guidando con cura il ritmo della pellicola, usando la tecnica ed i tempi comici per accelerare quei passaggi che poi gli consentiranno (spesso) di rallentare senza che lo sguardo dello spettatore si distragga annoiato. In questo modo viene liberata tutta la forza di una sceneggiatura che è elogio meraviglioso della semplicità.
Senza che vi sia ombra degli strepiti mucciniani, in poco più di novante minuti travestiti da commedia brillante vengono messi a nudo i drammi e gli snodi della società americana, con una leggerezza ed una pulizia che li rendono ancora più stordenti, smuovendo dentro di noi le stesse domande che agitano i protagonisti del film, obbligandoci a guardare nello zaino che portiamo sulle spalle e a chiederci se il peso che tende i legacci sia ragione od ostacolo della nostra felicità.
Ricordando infine l'eccellente cast, mi si lasci spendere una parola anche per George Clooney, mai in un così perfetto equilibrio tra la sua parte surreale [L'uomo che fissava le capre], la sua parte brillante [Un giorno per caso] e la sua parte drammatica [Michael Clayton].

Voto: 8/9
Riuscitissimo matrimonio tra commedia brillante e dramma, un film scritto ottimamente e guidato stupendamente da regia ed attori che colpisce mente e cuore.

sabato 16 gennaio 2010

"Sherlock Homes" (id.)

Nei panni di una sorta di Gordon Ramsay cinematografico, Guy Ritchie si dedica a reinterpretare secondo il suo personalissimo style uno dei "piatti" forti della tradizione letteraria.
Il lavoro sull'ingrediente principale è più formale che sostenziale: l'algido distacco unanimamente attribuito ad Holmes viene trascinato verso la guasconeria (come si fa a non essere pazzi di Robert Downey Jr. ...??) ed il regista inglese si diverte a sporcare il detective con la patina fumosa ed il dinamismo dei bassifondi londinesi, ad "umanizzarlo" con una cura a base di pugni ed acrobazie (per maggiori dettagli si consiglia di andare a riprendere quanto accaduto al James Bond di Daniel Craig...). Il cuore del personaggio non viene però toccato significativamente e ne vengono conservate le peculiarità, quali l'osten
tazione quasi inevitabile di superiorità o il muoversi in un mondo di cui la sua genialità gli svela passato e futuro (divertente ed efficace lo stratagemma dei flash forward durante i combattimenti).
Si passa poi all'aggiunta degli altri ingredienti. Il dottor Watson viene elevato rispetto al livello solitamente riservatogli dalla tradizione, aumentandone l'intraprendenza e le abilità, la complicità ed empatia con Holmes, riportando un po' più a galla quella parte della sua storia che dice "ex militare decorato"; impostazione resa quantomai evidente dalla scelta di affidare il ruolo ad un secondo violino di lusso come Jude Law
[Closer, Alfie, Gattaca]. Anche l'affascinante ladra interpretata da Rachel McAdams [State of Play, Red Eye, 2 single a nozze] si dimostra molto rispettosa dei canoni tradizionali, generalmente spogli di intrecci rosa, in modo molto apprezzabile visto che così la relazione sentimentale non pesa sulla storia come un inutile fardello, ma si rivela godibilmente giocata su una complicità fatta di sguardi e scaramucce verbali.
Diverso è invece il discorso che bisogna fare sul villain (il Mark Strong di
Body of Lies, RocknRolla, Stardust): nonostante si presenti inizialmente come l'ulteriore personaggio costruito bene, alla lunga denota uno scarso carisma e finisce con l'essere la spia del difetto principale della pellicola. Infatti, nonostante la sceneggiatura si dimostri molto ben realizzata formalmente (anche estremamente azzeccata nel rinfrescare i diversi topos holmesiani, recuperati nella loro quasi totalità, vd. ad esempio la spiegazione a posteriori dei punti oscuri nel meccanismo "giallo"), essa si rivela anche di poca sostanza nella costruzione della vicenda principale. La storia ha pochi elementi degni di nota, non si rivela mai particolarmente avvincente, sorprendente e finisce con il lasciare che tutto il lavoro gravi sulle spalle degli attori, anche se elementi apprezzabili come i diffusi richiami alla modernità sarebbero pure diffusi qui e là. In buona sostanza un'occasione sfruttata bene, ma distintamente al di sotto delle aspettative, quasi a voler attendere il prevedibile sequel per dare veramente fuoco alle polveri.

Voto: 7,5

Sufficientemente fedele alla tradizione ed abile nel rinnovarla, il film pur se estremamente godibile e ben fatto si rivela un po' deboluccio nel suo impianto narrativo.